Testo di Marco Visani – foto di Wolfango
Questa Panda in livrea Marrone Land è una 30: lo rivela la presa d’aria a destra, dietro la quale s’intravvede il ventolone per il raffreddamento ad aria del motore. Caratteristici il tergi monospazzola e le giunzioni tra tetto e fiancata coperte da profili in plastica sui bordi del padiglione.
Peri feticisti del modello – che sono tanti, e spesso giovanissimi – hanno quasi lo stesso valore del fanalino piccolo per un “Golfista”, o della leva lunga per un patito della Mini. Sono le due prese d’aria per la ventilazione dinamica piazzate sotto il parabrezza della Panda. Se sono sottili, quell’esemplare è un pezzo rarissimo, visto che furono montate solo per un anno e mezzo. Dall’estate 1981 avrebbero assunto una forma più “carenata”, destinata a rimanere sino alla fine. La nostra Panda, immatricolata il 2 luglio 1982, le mostrine piccole non le ha. Per il resto, ha tutto, ma proprio tutto il sapore della prima serie, presentata quarant’anni fa, a marzo 1980, al Salone di Ginevra.
Con ogni probabilità è stata la Fiat più rivoluzionaria di sempre, se a questo termine si assegna il senso di rottura. Sino ad allora le utilitarie torinesi erano minuscole, come se chi aveva poco da spendere fosse per forza di cose anche basso di statura ed esile di corporatura. Con la Panda, approvata durante il suo blitz di soli cento giorni alla guida dell’azienda da Carlo De Benedetti, la Fiat spariglia le carte: per la prima volta affida lo studio di un modello dì grande serie a un esterno, la Italdesign di Giorgetto Giugiaro, che si richiama alla scuola francese delle utilitarie spaziose con un insolente mix di soluzioni modernissime (la plancia-marsupio, il divano-amaca) e altre che sembrano arrivare dal passato e che hanno una loro logica in termini di semplificazione produttiva e contenimento dei costi:
vetri piatti, cerniere delle porte a vista, retrotreno ad assale rigido con balestre longitudinali.
I comandi sono raggruppati a destra della strumentazione: la plancia è infatti un enorme marsupio con posacenere scorrevole. Sottili i sedili, per non sottrarre spazio, con poggiatesta optional. Il divano, montato su due tubolari, può essere piegato ad amaca per il trasporto di oggetti o completamente disteso, in modo da formare una cuccetta una volta reclinati gli schienali davanti. Questo rivestimento rimane sino a settembre 1982, quando cambiano cuciture, tessuto e tinte. Le fasce laterali (in basso) non sono di plastica come i paraurti, ma in acciaio verniciato con un poliestere opaco.
Invece della solita calandra, un rettangolo di acciaio con 19 intagli, rivolti a destra oppure a sinistra, semplicemente capovolgendolo, a seconda del motore montato. Sotto il cofano la scelta è infatti tra il bicilindrico della 126, portato da 24 a 30 CV (da cui la cifra identificativa) grazie a una diversa carburazione, una testata ridisegnata, un differente scarico e una maggiore compressione; e il 4 cilindri 903 cm3 da 45 CV, in questo caso identico a quello della 127. Costruita inizialmente a Termini Imerese e a Desio, presso l’Autobianchi, nel corso della suà lunga carriera, durata sino al 5 settembre 2003 per oltre 5 milioni e mezzo di esemplari, la Panda “tipo 141” è stata prodotta anche a Mirafiori e per un breve periodo, tra il 1990 e il 1991, persino alla Innocenti di Lambrate.
Piaceva a tutti, dallo studente alla pensionata, e riusciva anche a trasformarsi in fuoristrada, grazie all’inarrestabile 4×4 lanciata nel 1983. Nel febbraio 1986, con la presentazione della cosiddetta Supernova (motori Pire, ponte posteriore a Omega e restyling) la Panda evolve nella continuità. Per i puristi, però, la vera Panda è la prima serie, e se è una 30 vale ancora di più. Non tanto in senso economico, ma affettivo.
Il nostro esemplare, arrivato nelle mani dell’attuale proprietario nel 2016 con 50.000 km senza mai essere uscito dalla provincia di Torino dopo essere scampato a corrosione, rottamazione oltre che al rischio di esportazione, è sostanzialmente conservato. Gli interventi di ripristino che ha subito sono infatti quelli di routine. Parola che per una Panda 30, oltre all’inevitabile tagliando, significa rifacimento degli astucci delle punnterie, da cui cronicamente trafila olio, e riverniciatura dei fascioni laterali nonché dei paraurti, soggetti a scoloritura, con il corollario di pochi, trascurabili ritocchi per cancellare piccoli danni da parcheggio. Per il resto, a parte un’energica igienizzazione di sedili, marsupio e pannelli porta e un’immancabile lucidatura, non c’è stato bisogno di altro. Persino le gomme sono ancora quelle del primo equipaggiamento, con tutti i limiti che ne derivano, beninteso. La Panda 30 è una quarantenne che, soprattutto per via del suo bicilindrico, consegna le sensazioni di guida di un’auto molto più attempata che va letto come un apprezzamento, perché significa che ha un carattere veramente unico. Resistente a entrare in temperatura a freddo, rumoroso, ruvido e afflitto da fortissime vibrazioni, il suo 652 CM3 in linea diretta parte del motore della 500, ha ha un’ inaccettabile verve grazie al doppio corpo.
La feritoia di aerazione “alta” arriva nell’estate 1981. Subito sotto, si nota il cappuccio della cerniera superiore della porta. Tra le modifiche dei primissimi anni anche il passaggio dalle balestre bilama alle monolama. Il bicilindrico della 30 è montato longitudinalmente, mentre il 4 cilindri della 45 è trasversale. La 30 conserva, come la 126, la prima marcia non sincronizzata.
Non si può dire che sia brillante, questo no, eppure stuzzicandolo con le marce basse (ed evitando accuratamente le salite) non è nemmeno così puritano come ci si potrebbe attendere da 30 miseri cavalli. La frizione che stacca altissima , il cambio leggermente gommoso, il (parola che non capisco) leggero e saltellante (siamo anni luce qui dall’agilità e dalla precisione di un A ( non capisco)) e la risposta viceversa sincera ed efficiente di sterzo e freni sono le caratteristiche più evidenti della 30.
La posizione di guida, priva di grosse lacune a tutta prima, diventa fastidiosa sulle medie e lunghe distanze a causa del sedile molto sottile, per nulla confortevole e tendente all’affossamento. Ma tant’è …
Vi fosse rimasto qualche dubbio suquanto la Panda sappia far innamorare, sentite questa. Chi scrive, nato automobilista nel 1985 a bordo di una 30 Avorio Senegal (sulla quale riuscì anche a cappottare senza farsi un graffio, e ancora non ha capito come sia stato possibile), ha provato una tale emozione, guidando di nuovo lo stesso modello per Ruoteclassiche, che poco tempo dopo è andato a cercarsene una e l’ha comperata. E oggi usa quotidianamente la sua 30 Rosso Siam con un piacere che nemmeno la più brillante delle granturismo saprebbe dargli. Se non ci fosse, diceva la pubblicità, bisognerebbe inventarla. Ma la bella notizia è che l’hanno inventata.